mercoledì 10 settembre 2014

Il Bello nell’arte – parte quinta


Il Bello nell’arte – parte quinta

La decadenza del Bello

La società capitalista ha come valore supremo l’utile individuale in termini di denaro e di capacità di consumo. Questo porta all’abbandono di molti altri valori, come abbiamo già visto, di tipo umano e sociale. Ma anche di altro genere. Ad esempio di tipo estetico. Il progresso industriale, lo sviluppo economico sono stati fin dall’origine in antitesi con le esigenze estetiche di valorizzazione, promozione o quantomeno preservazione del bello. Perché il bello non è “utile” nel senso capitalistico del termine. Il bello comporta cultura, sforzo, attenzione, educazione, studio, etc. Tutte cose che si oppongono alla massificazione e al lavaggio programmato del cervello. Le caratteristiche umane che necessitano per la percezione del bello sono le stesse che lo rendono resistente alla massificazione: intelligenza, cultura, sensibilità, sapienza. A maggior ragione, la produzione artistica è possibile solo al di fuori della massa: l’artista è per antonomasia colui che esprime se stesso in modo originale e duraturo.
La ricerca e la preservazione del bello è qualcosa che va contro agli interessi dell’accumulo indefinito, in cui  il guadagno sta al primo posto. Le mostruosità urbanistiche ed architettoniche che hanno devastato troppo spesso il nostro paesaggio e ferito le nostre città rappresentano un tipico esempio di quanto si sta qui dicendo. Inquinamento e squilibrii ecologici sono frutto di una mentalità tutta protesa al guadagno illimitato da parte di chi detiene il potere, economico o politico che sia, senza alcun ostacolo. Belle architetture, belle periferie, bei luoghi di lavoro sono considerati ideali utopistici che solo incompetenti in economia possono elaborare. Si fa di tutto perciò per convincere che in realtà ciò che appare brutto sia quantomeno utile per il raggiungimento di un bene superiore, più o meno vicino, più o meno a portata di mano. “Alcune delle più disgustose qualità dell'uomo” sono state “elevate al rango di virtù supreme”[1] e moltissimi si sono convinti che il brutto e tutto ciò che lo accompagna sia quantomeno un inevitabile stadio dello sviluppo della civiltà e della cultura.
Il bello è stato oggetto di una enorme mistificazione. E’ stato scambiato con ciò che gli assomiglia, ma che gli sta agli antipodi: il volgare. Il volgare è di facile somministrazione da parte di chi programma la massificazione dei gusti e di facile accettazione da parte di chi ne è destinatario. Il volgare appaga gli appetiti più bassi e fornisce un piacere immediato, semplice, ovvio, che può facilmente essere scambiato per il piacere del Bello. La televisione ed i media in genere, strumenti per eccellenza del consumismo più bieco, hanno contribuito in maniera determinante alla distruzione della sensibilità al bello e alla incapacità a riconoscerlo.
La perdita dell’idea di Bello è concomitante all’individualismo etico ed economico che fa da ideale supremo della nostra società capitalista. Ciò che desidero, ciò che voglio, per il solo fatto di essere oggetto del mio desiderio, è bello. Come il fare ciò che si vuole, derivante dalla convinzione che ciò che penso e voglio sia un sacrosanto diritto, porta all’abbandono di un serio atteggiamento critico e di confronto con gli altri, così l’idea del bello decade a “gusto” dell’individualità più povera.
Questo atteggiamento individualista preclude la strada alla percezione del Bello e la apre all’invasione del volgare. Perché l’individualista ha un bel dire che l’individuo può pensare ed apprezzare ciò che vuole…chi gli fornisce le idee, le parole e l’oggetto del suo desiderio, rinchiuso com’è egli nel suo ristretto mondo mediatico fatto di TV, videogiochi ed un per lo più errato uso della rete web? Dove può trovare gli strumenti culturali per distinguere ciò che vale, ciò che conta da ciò che semplicemente illude, appare, inganna? Una tale perdita di intelligenza è qualcosa di terribile, irreparabile, che ricorda le parole degli antichi saggi: “la disattenzione è il sentiero della morte; gli attenti non muoiono, i disattenti sono già come morti[2]. Le proprie idee, i propri pensieri, i propri “gusti” sono davvero frutto della nostra ricerca e quindi qualcosa di proprio solo se sono costantemente confrontate con quelle di altri, dalla cui esperienza possiamo trarre qualcosa di diverso dal tentativo di plagio tipico del mondo consumistico. Altre persone che hanno ragionato, ricercato, sofferto, intensamente vissuto… ecco il valore della cultura, della lettura, della scuola. Inserire il ragazzo in quella vivificante corrente umana di cui siamo eredi e che è fatta delle preziosissime riflessioni, contributi, indicazioni etiche ed esistenziali che ci hanno lasciato in eredità. Questa è la cultura.



[1] J.M.Keynes,in: P.A.Samuelson, Economia, Zanichelli, Bologna 1987
[2] Dhammapada 21. L'attenzione è una virtù dell'intelletto. Necessita della tutela di cui ha bisogno l'intelletto nelle sue normali funzioni di apprendimento (riposo, disciplina, metodo...). soprattutto capacità di concentrazione che, guarda caso, è ciò che manca primariamente al giorno d’oggi, particolarmente nei giovani. L'attenzione è simile all'osservazione e all'ascolto. Serve a discriminare il vero dal falso, l'illusorio dal reale, a far svanire le nebbie che sono i noi. Fa riconoscere i desideri profondi e smaschera quelli indotti da paure o semplicemente dagli altri. L'attenzione fornisce una libertà particolare, una specie di sovranità sulle cose e sugli eventi. Sfida i luoghi comuni e supera i pregiudizi. Non permette che ci si identifichi in stereotipi. La persona attenta, perciò, sa ascoltare, comprendere, apprezzare cose diverse: ascolta Bach ma anche i Beatles, apprezza il pesto e le minestre vietnamite, stupisce di fronte a Schiele e a Michelangelo.

martedì 17 giugno 2014

Il bello nell'arte - parte quarta


Il bello e le mode


L’estrema banalizzazione del bello si ha attraverso le mode. La potenza persuasiva messa in atto dal sistema di condizionamento delle masse (TV, giornali, internet, social network, elaborazione di modelli di cantanti funzionali a determinati obiettivi, etc) si esprime nella capacità di convincere, ogni due o tre anni, un numero immenso di persone, soprattutto giovani, della bellezza di un tipo di vestiario, di un colore, di certi modi di pettinarsi. Si sa che tutti questi ragazzi si adegueranno come un immenso gregge. Tutti crederanno di aver scelto liberamente in base al proprio gusto e si convinceranno di essere persino originali, incapaci di rendersi conto di essere semplicemente uguali a tutti gli altri. Taluni si sentiranno più sicuri proprio perché parte della massa. Infatti la maggioranza crea un senso di sicurezza, di invulnerabilità. Come certi pesci che, non avendo difese, si radunano in fittissimi banchi per impressionare i predatori e disorientarli.

Una moda è di per se stessa destinata a morire per lasciare il posto ad una moda diversa. Se una persona resta indietro, cioè se non si aggiorna secondo i modelli imposti dalla nuova moda, se continua a vestirsi come andava qualche anno prima; se continua ad usare una giacca, un paio di calzoni o una gonna “vecchi”, sarà inesorabilmente snobbata dai modaioli (i più) quando non presa in giro ed emarginata.

La grande differenza rispetto a quanto abbiamo detto del bello è che la moda è essenzialmente effimera. Il bello di per sé è eterno, cioè vale sempre, risulta sempre apprezzabile, comprensibile a tutti, al di sopra del tempo e dello spazio. Oggi ci stupiamo di fronte a sculture, pitture, musiche di 500 anni fa. Il bello supera i confini della storia. La moda no, perché è parte del sistema economico, è strumento di potere e fonte di enormi guadagni in quanto fenomeno di massa mutevole.

Lo slogan che sta dietro alle mode e che permette il continuo cambiamento del gusto a fini commerciali è: ’il bello è ciò che piace’. Pochi sono i luoghi comuni più diffusi e sciocchi di questo. E’ tutto da vedere che sia bello ciò che piace. A causa delle mode, ad esempio, possono piacere cose di pessimo gusto. E, al contrario, a molti possono non piacere cose bellissime. La mancanza di cultura, insieme al bombardamento dei modelli delle mode provoca danni molto gravi nel cervello e nella sensibilità delle persone. Meno cultura c’è in una persona, più essa è esposta al virus del “bello è ciò che piace” e qualcun altro, ben al di sopra di lui, gli farà piacere cose nuove ogni due anni. Ne programmerà a tavolino i gusti e le spese. Apprezzare il bello non è sempre così facile ed istantaneo. Ci vuole un minimo di sensibilità, fornita per lo più dalla cultura. Non dico che non ci possano essere persone di cultura medio-bassa che apprezzino l’arte vera e propria, ma la probabilità che questa condizione di ignoranza sia terreno fertile per il seme delle mode è molto più elevata. Ecco perché l’apparato economico e politico (che del primo si nutre ed è servo) non ha il benché minimo interesse a promuovere la vera cultura, quella che rende l’intelletto più critico ed autonomo.

La cultura si oppone alla massificazione, perché quest’ultima è opera di un lavaggio del cervello generale, mentre la cultura è promozione delle capacità e delle caratteristiche dell’individuo. Fare cultura, insegnare al meglio, aiutare i ragazzi a formarsi una coscienza critica devono essere gli obbiettivi della scuola[1]. Il mezzo sono le materie. Svolgerle bene, far comprendere ai ragazzi il loro valore come strumento di analisi del mondo, anche quelle che meno sembrano adatte a questo scopo, significa vincere battaglie importanti e riacquistare militanti alla causa del Bello contro ogni sua mistificazione.




[1] La scuola che, anche se mal ridotta, continua a far paura. La cosiddetta riforma della Gelmini ha inferto un ulteriore durissimo colpo alla cultura, eliminando di fatto nel biennio delle scuole superiori la geografia, il diritto, restringendo il campo della storia dell’arte, annientando il programma di storia e geografia nelle elementari (opera già iniziata dalla sua precedente degna collega Moratti)

martedì 25 marzo 2014

Il bello nell'arte - parte terza


La fregola della firma


La persona media che va ad un museo e guarda un quadro di un famoso pittore, lo giudica bello ed imponente. Se analizziamo il suo giudizio, scopriamo che egli ritiene che sia bello perché è tenuto a giudicarlo tale.
Il problema è di capire se il pensiero sia il risultato della propria attività mentale. Lo pseudopensiero può essere anche perfettamente logico e razionale. La questione decisiva non è quel che si pensa, ma in che modo lo si pensa (Erich Fromm)


 
Una prova ulteriore del declassamento dell’arte che si è verificato a partire dalla metà del secolo scorso e della sua riduzione a mero fatto commerciale è quella che possiamo senza dubbio definire la fregola della firma. Oggi, tutti sono disposti a dire che un’opera è bella se si sa che è di un “grande” artista, vale a dire di un personaggio consacrato dalla moderna storia dell’arte o dal battesimo della critica e delle grandi istituzioni del settore. Chi oserebbe dire che un disegno di un certo grandissimo è una vera schifezza? Nessuno, ma soprattutto per pudore, per timore di esser considerato un incompetente troglodita. Certi musei sono ricchi di opere che, se trovate nella stanza del proprio figlio, sarebbero considerate scarabocchi da cestinare. E questo, di sicuro, lo sapeva anche l’autore. Troppa malizia, troppa furbizia trapela da certe opere. Quando si fa denaro a palate con uno scarabocchio, ci si diverte senz’altro a prendere in giro l’umanità. Una vera forma d’arte, questa, senza dubbio,. Una delle più raffinate. Si paga un mega pranzo ad un ristorante con uno scarabocchio su un tovagliolino di carta. Niente di più facile a diventare una zecca ambulante.

Emblematico di quanto stiamo dicendo è il sublime scherzo delle teste di Modigliani, fatte trovare da alcuni arguti burloni nelle acque dei canali di Livorno. Ne parlò tutto il mondo. Eminentissimi specialisti e professori giurarono sulla loro autenticità e ne celebrarono la bellezza ed il fascino che promanava dai loro volti enigmatici. Furono esposte all’ammirazione di tutti.

Quando quei simpaticoni (diversi, a diverse riprese, gli uni all’insaputa degli altri) svelarono lo scherzo, si presentarono come i veri autori delle teste ritrovate in fondo ai canali, scoppiò un putiferio. Dapprima non vennero creduti, ma poi ci furono prove inconfutabili, fra cui fotografie che si autoscattarono durante il lavoro. Dopo di ciò, le teste persero il loro interesse per il mondo dell’arte e per il mondo intero. Perché? Perché non erano di Modigliani. Ma… il loro fascino, la loro enigmaticità, il loro arcano legame con le antiche teste della Lunigiana, quasi la prova di una specie di eternità della bellezza arcaica? Più nulla. Fine dello spettacolo. Fine di tutto. Non erano d’autore. Quindi, ciò che contava non era la loro bellezza, ma il semplice fatto che sarebbero state di Modigliani. 
Forse qualche critico aveva davvero percepito una reale bellezza in quelle opere di pietra. E, a guadarle, sono davvero belle, di una enigmaticità che “fa pensare”. Però, dopo il disvelamento degli autori come uomini qualunque avevano irrimediabilmente perduto il loro vero valore, cioè quello commerciale. E ciò bastò ad eliminarle definitivamente dalla memoria storica. 
Si può certamente affermare che la morte dell’arte di cui parlava Hegel è la sua trasformazione in strumento economico, la sua trasformazione in denaro.

L’arte antica, quella delle statue greche, dei templi, delle cattedrali romaniche, gotiche, i cui geniali realizzatori restano e resteranno del tutto sconosciuti, si impone per la sua metafisica bellezza, forse accentuata dalla loro antichità. Ma anche il tempo ha il suo valore ed il suo ruolo nell’accumulo di significatività di un’opera d’arte. Esempio più fulgido di questo è la musica, la cui reinterpretazione e ricomprensione costanti l'arricchiscono di significati sempre nuovi e profondi. La fregola della autenticità dell’autore è un fatto del tutto moderno, che rivela il progressivo indebolimento del senso dell’opera in se stessa a vantaggio dell’autore. Infatti, sbagliando, oggi troppo spesso si insegna nelle scuole che bisogna andare a ricercare nell’opera d’arte ciò che l’autore voleva dire, il suo travaglio interiore, la sua personalità. Il che è completamente errato. L’opera d’arte deve parlare di per se stessa, deve avere una sua autonomia indipendentemente dalle “intenzioni” dell’autore. Come un figlio, l’opera d’arte fa la sua vita e molto spesso va ben al di là delle intenzioni dell’autore; come un figlio, non rispecchia necessariamente le aspettative di un genitore. 
Il cammino dell’arte moderna è interessante proprio come monito: alla spersonalizzazione dell’individuo che è l’obiettivo della società dei consumi, si accompagna la perdita della sua capacità di riflessione critica, nemica di per sé di ogni tentativo di massificazione. Ed alla perdita della capacità critica si accompagna la banalizzazione di quelle forme di espressione e riflessione comunemente chiamate “arte” ma che non sono più tali in quanto divenute parte stessa del grande programma di lobotomizzazione generale. Il contrario esatto, cioè, di ciò che è essenziale all’arte per essere tale.


Marcello Tobia


Il bello nell'arte - parte seconda

Bellezze


La bellezza dell’arte ha un sovrappiù di significato, che siamo venuti fin qui dicendo. Il bello dell’arte fa riflettere, èleva al di sopra della mera quotidianità, anche se nell’arte molto spesso è proprio questa ad essere rappresentata, nel suo dolore e nelle fatiche che comporta. Il bello dell’arte fa riflettere perché nasconde in sé o meglio svela un mondo “ideale”, cioè di idee ultime, fondamentali, basilari, alla cui luce l’artista ed il suo fruitore leggono il mondo, questo mondo.

Nell’arte ci si immerge in un mondo che ha dell’iperuranio platonico. In esso si esprime il giusto, il buono, il bene, il male; si trovano insegnamenti sul come vivere. Ovviamente, non solo in opere d’arte di oggetto religioso. Tutto questo lo si trova in paesaggi, marine, ritratti, momenti di vita quotidiana, vita di poveri, di ricchi, di borghesi…. L’opera d’arte provoca una specie di catarsi che spinge l’uomo a rientrare in se stesso -anche quando si tratta di soggetti materiali e lontani da qualsiasi riferimento al pensiero- e a pensare.

Perciò l’arte è sempre stata vista con grande sospetto dai sistemi autoritari[1] e sottoposta a controlli e censure pari a quelle del pensiero politico e filosofico.

La bellezza in se stessa non è facile a definirsi. Il bel libro di Umberto Eco[2] ne tratteggia una storia di definizioni molto ampia ed eterogenea. Anche il corposo testo Sexualis Personae[3] riflette su questo tema, ma ha per oggetto soprattutto l'eros. Cioè il tentativo, nell'arte, di fare dell’elemento erotico una occasione di contemplazione del bello senza scivolare nel volgare (di cui parleremo più avanti).

Bello potrebbe essere definibile semplicemente come ciò che attrae, che piace, che rende la vita quotidiana più leggera e vivibile. Certo, in questo modo si rischia la superficialità e l’appiattimento alla banalità delle mode e dei cosiddetti “gusti personali”. E questi possono essere a loro volta buoni o cattivi. L’idea di bellezza deve far riferimento in ogni caso a qualcosa di più di quel che il soggetto considera bello in un dato momento della propria vita, della storia, nel fluttuare delle mode.

Oggi il bello si confonde con le mode in un continuo ricambio di prototipi, diciamo così, a cui la massa tende ad adeguarsi perché ad essi assuefatta attraverso i media e da essi fortemente condizionata. Il bello è la moda ed è perciò dettato dal mercato e soggetto alle leggi del mercato. Bello è ciò che fra poco non lo sarà più, soppiantato da altri tipi di bello e che presto sarà considerato ridicolo.

Anche l’arte, purtroppo, è diventata per lo più una questione di business, come le mode. Arte e bellezza spesso non hanno nulla in comune. Ciò che oggi per lo più si definisce arte è soltanto frutto di una ostinata ricerca dell’originalità, di qualcosa di eccentrico rispetto alla normalità delle cose e dei gusti, per provocare la chiacchiera, lo scandalo, la pubblicità, in poche parole. Il motivo di questa trasformazione è complesso. Poi lo vedremo. Per ora riflettiamo sul fatto in se stesso, cioè sulla acquisizione nel campo dell’arte di determinate forme di espressione tipiche della modernità.

Spruzzi casuali di colore sulla tela o tagli dovuti a coltellate; l’esposizione di feci in barattolo, mucchi di seggiole di plastica o scatoloni di prodotti commerciali, quando non vera e propria spazzatura di vario genere sono proposti come oggetti d’arte[4]. Molto hanno di provocatorio, senza dubbio, non senza un certo snobismo; spessissimo si tratta di veri esempi di semplice narcisismo. Tutti, però, hanno qualcosa in comune. L’assenza di quel genere di bellezza, tipico dell’arte, che spinga ad una dimensione trascendentale, che porti ad una riflessione, all’introspezione, alla contemplazione “del mondo delle idee”, come direbbe Platone. Si tratta di arte? Certo queste opere si impongono all’attenzione di tutti attraverso la potente macchina della propaganda del settore che li consacra come opere d’arte ed inevitabilmente le pone all’attenzione di tutti. Chiunque, sufficientemente sfacciato ed ignorante, se potesse esporre al MOMA di N.Y. ed aver spazio in riviste specializzate disponibili a recensioni ottimistiche e positive, potrebbe in breve essere annoverato fra i personaggi importanti dell’arte contemporanea.

Questo immiserimento dei contenuti dell’arte è l’altra faccia della sua riduzione a mero fatto commerciale. Dall’alto dei poteri economici e delle lobby culturali di certi paesi –soprattutto gli USA, imbattibili nello smercio di banalità- viene definita come arte qualsiasi cosa possa provocare, risultare inaspettatamente inusuale per la sua banalità o il suo cattivo gusto.

In certi casi si può concedere che determinate opere riescano ad essere semplici oggetti decorativi, adattabili, a seconda dello stile, in appartamenti supermoderni od uffici, banche, atrii di hotel di lusso…. Poco di più. Non si può dire che certi quadri o certe sculture siano brutti… di certo non sono opere d’arte nel senso da noi inteso. Begli accostamenti di colore, un tocco di inusualità…. Nulla più.


Una esemplificazione letteraria



Nel recente romanzo “Il più grande artista del mondo dopo Hitler”, di Massimiliano Parente, si tratta di un uomo, Max Fontana, il quale, fra i suoi molteplici deliri di onnipotenza ed autodistruzione,  ha capito che per diventare un grande artista ed entrare a far parte della storia, occorre fare qualcosa di assolutamente originale ed irripetibile per altri. Qualcosa che batta ogni record e lo consacri definitivamente nell’Arcadia. Egli sa che non occorre esser bravo a disegnare, scolpire, fotografare, scrivere: per diventare un grande artista occorre fare qualcosa di eclatante. Come Hitler, anche se quest’ultimo non potrà mai essere uguagliato nella storia per ciò che ha fatto. Il romanzo segue il protagonista in tutte le sue bizzarrie per arrivare ad essere notato dalla stampa e dall’opinione pubblica…. Potremmo forse dire che il nostro eroe sbaglia per eccesso. In realtà al giorno d’oggi, per “essere qualcuno” dal punto di vista della fama di pubblico, basta far presenza fissa in un semplice talk show o in uno dei cosiddetti reality. A quel punto, come già abbiamo purtroppo potuto constatare, pressoché tutte le strade si aprono e credo proprio che non sarebbe difficile trasformare in artista uno di questi personaggi (in pseudoattori ci si è già riusciti).









[1] E. Wind, “Arte e anarchia”, Mondatori 1972

[2] Umberto Eco, Storia della Bellezza, Bompiani 2012

[3] Sexualis Personae, Einaudi


[4] Recentemente è comparsa una notizia sul giornale che diceva che una donna delle pulizie ha spazzato un’”opera d’arte” fatta di mozziconi di sigaretta e rifiuti di altro genere. 

domenica 23 marzo 2014

Il bello nell’arte - parte prima


Necessità di trascendere


In un recente articolo ho letto che a New Orleans gli schiavi trovavano nella danza , malgrado le condizioni drammatiche in cui vivevano, un modo per trascendere la loro condizione di dolore e sofferenza. “Quand’erano lì, erano liberi. E il loro spirito prendeva il volo”. Del resto, proseguiva l’articolo, tutti abbiamo bisogno di un momento di trascendenza[1]. Bisogno di trascendenza. Questa affermazione mi ha fatto riflettere e mi ha offerto l’occasione di tentare definizione di ciò che connota un’opera d’arte, della funzione del bello nell’arte.
Perché un’opera si definisce arte? Che differenza fra un bello qualsiasi ed il bello artistico? Il bello ha sempre in qualche modo a che fare con l’arte?
Credo che l’arte ci offra l’opportunità di trascendere i limiti della nostra condizione per riflettere su di essa e non restarne del tutto vittime. L’arte aiuta a non subire la vita, a non essere semplici elementi che compongono le intricate situazioni dell’esistenza, ma a posizionarci al di sopra per riflettere e donare un senso a tutto: alla vita, alla morte, alla sofferenza, alla gioia.
Tutti abbiamo esigenza di porci al di sopra degli avvenimenti, gioiosi o dolorosi che siano, per tentare di distillarne un senso, una logica. Potremmo dire, facendo un passo in avanti nella nostra riflessione, che tutti abbiamo necessità di armonia. Per armonia intendiamo una logica, un “ordine” la cui ricerca ci è connaturale quanto il respirare. E’ una necessità per l’uomo il desiderio di dare un senso alla propria esistenza, di vederci chiaro, di scoprire un ordine, una logica che renda chiaro il senso degli accadimenti che coinvolgono noi e gli altri. Vale a dire trovare la verità sull’esistere. 
La bellezza è il volto dell’armonia che si cerca. La bellezza è il volto dato dall’arte al del senso dell’esistenza. L’opera d’arte comprende tutta l’esperienza dell’uomo: descrive il bene, il male, il dolore, l’amore, ecc. In essa tutto si colloca all’interno di una coerente visione del mondo.
Non a caso tutte le arti sono nate nel seno delle religioni. (In Occidente, arti figurative e musicali hanno reciso il loro cordone ombelicale con la religione molto tardi, nel XVII secolo). Tutte le forme di espressione che possiamo definire arti hanno come scopo di elevare l’uomo al di sopra della sua mera naturalità e permettergli di riconoscersi “di più”, un “di più” di cui ha avuto rivelazione grazie alla sua razionalità.
Per definire l’arte, possiamo senz’altro utilizzare le parole che H.G. Gadamer ha usato per descrivere la funzione del linguaggio. Si tratta di “innalzarsi sopra la pressione del mondo”[2], di mettere ordine in ciò di cui egli ha avuto esperienza. Qui è evidente che l’uomo non è la semplice risultante di una serie di condizionamenti ambientali, biologici, culturali. Egli è di più: riesce a conferire a tutto ciò un colore, un valore (e dunque anche un disvalore). Egli si èleva al di sopra della molteplicità dei condizionamenti che lo caratterizzano e riesce a dare su tutto un giudizio, a porsi al di sopra di ogni ventura e sventura per assumere una prospettiva più ampia, che ingloba il mondo e l’esistenza tutta, nel suo darsi, nel suo porsi. Come ogni lingua è espressione delle infinite possibilità del linguaggio umano, delle infinite possibilità di trascendenza rispetto alle cose, così le forme dell’arte.
Vi sono molteplici modalità di “innalzarsi” al di sopra della realtà per vederla nella sua globalità, donarle un senso. Più il linguaggio si affina (letteratura, poesia, filosofia, etc…), più si avvicina al suo obiettivo più eminente. Così è per tutte le altre sue “abilità”: il disegno, la scultura, la musica, la costruzione di abitazioni, la gestione degli spazi urbani e naturali…. Più l’opera è vera arte, maggiormente comunica significato[3].

Il senso compiuto che si esprime nell’opera d’arte, come detto più sopra, deve avere una coerenza interna, deve essere armonico. L’”argomentazione” sul senso della vita deve essere logica e sostenibile. Sia che si dia alla vita un senso positivo che negativo. In questo sta la bellezza dell’opera d’arte. Per questo, sul piano religioso, l’arte è la via eminente per l’accesso alla verità. “La via della bellezza … apre orizzonti infiniti, che spingono l’essere umano ad uscire da se stesso, dalla routine e dall’effimero istante che passa, ad aprirsi al Trascendente e al Mistero, a desiderare, come scopo ultimo del suo desiderio di felicità e della sua nostalgia di assoluto, questa Bellezza originale che è Dio stesso, Creatore di ogni bellezza creata”[4].

Marcello Tobia

[1] Rebecca Solnit, Internazionale n° 1035 del 24-30 gennaio 2014, p. 84
[2] H.G.Gadamer, Verità e Metodo, Bompiani 1983, p. 506.
[3] Ovviamente, si può sempre far buon e cattivo uso del linguaggio, come si può cantar bene o male, essere intonati o stonati, saper disegnare o meno oppure disegnar male o bene. Ma questo è un altro discorso.
[4] Via Pulchritudinis, Pont. Cons. Cultura, 3/2006.

lunedì 3 febbraio 2014

Le ragioni di questo blog


"Non so se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il mo­mento, mi è impossibile conoscerlo.
         Posso tutto negare, all'infuori di questo desiderio di unità, di questa brama di risolvere, di questa esigenza di chiarezza e di coesione.
         Ciò che tocco e che mi resiste, ecco quanto compren­do. E queste due certezze, la mia brama di assoluto e di unità e l'irriducibilità del mondo a un principio razio­nale e ragione­vole, so anche che non posso con­ciliarle.
         Se fossi albero tra gli alberi o gatto tra gli animali, questa vita avrebbe un senso o piuttosto questo problema non sussisterebbe, perché farei parte del mondo. Io sarei quel mondo, al quale mi oppongo ora con tutta la mia coscienza e con tutta la mia esigenza di familia­rità".
(A.Camus, Il Mito di Sisifo)


"Il senso del mondo deve essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore -né, se vi fosse, avrebbe un valore.
 Se un valore che ha valore v'è, dev'esser fuori di ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale. 
Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev'essere fuori del mondo.
         Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è.
         Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto -limitato-.
         Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico". 
(L. Wittgenstein, Tractatus Logicus-Philosophicus 6,41; 44; 45)

 
"L'uomo non ha l'essere, ha soltanto l'avere. L'essere dell'uomo è situato dietro il velario, dalla parte del sovrannaturale. Ciò che egli può conoscere di sé medesimo è soltanto quel che gli è offerto dalle circostanze. L'Io è celato per me (e per gli altri); è dalla parte di Dio, è in Dio, è Dio. 
 L'illusione delle cose di questo mondo non concerne la loro esistenza bensì il loro valore. L'immagine della caverna si riferisce al valore. Noi possediamo solo ombre di imi­tazioni del bene.
Accettiamo i falsi valori che ci appaiono e, quando crediamo di agire, siamo in realtà immobili, perché rimaniamo entro il medesimo sistema di valori.
Ci si dirige verso una cosa perché si crede che essa sia buona; e vi si rimane incatenati perché è divenuta necessaria.
Ecco perché la mistica è la sola fonte della virtù dell'umanità". 
(Simone Weil, L'ombra e la grazia)

 Credo siano sufficienti queste tre brevi -ma intense- riflessioni per giustificare questo blog, nel quale ci si augura si svolgano discorsi e si sviluppino temi che aiutino a rafforzare l'individuo, contrastando i massicci bombardamenti cui siamo sottoposti dall'esterno, finalizzati a massificarci e a trasformarci in consumatori senza più cervello e gusto. Situazione pericolosissima, nella quale siamo immersi fino al collo. Insomma, questo blog potrebbe essere una scialuppa pronta di fronte all'imminente naufragio.

Marcello Tobia